“Per amore del mio popolo non tacerò”

Don Antonio Riboldi

(Tregasio, 16.01.1923 – Stresa, 10.12.2017)

Il vescovo che rischiò la vita, noto per il suo impegno a favore della legalità e giustizia fronteggiò le prepotenze dalla mafia.
La nostra comunità è orgogliosa di aver dato i natali a un sacerdote di fama nazionale, che ha lasciato dei grandi valori. La fortuna di moltissimi di noi triuggesi è stata quella di conoscerlo di persona. Chi non ricorda l’affetto della gente e in particolar modo di Tregasio ogni volta che si incontrava con loro? Quanta tenerezza nel suo sorriso mentre ascoltava i suoi amati compaesani, sì, perché ognuno aveva qualcosa da raccontargli.


Rimarrà sempre in me il vederlo incontrare i tregasini dopo la Messa e mi son sempre chiesto come potesse una persona così semplice e dall’aspetto umile essere così forte e determinato, al punto da dire ai giovani della sua terra martoriata che esisteva solo una scelta: “o vivere come talpe subendo tutto o rischiare per avere la libertà”. E poi a tutti coloro che avevano responsabilità disse: “Sveglia! Togliete ciò che è ruggine nel processo di ricostruzione, una ruggine che si annida nei vostri uffici. Fate in un minuto ciò che richiede un minuto, senza attuare in un secolo ciò che richiede un anno. Ricordatevi che ogni ritardo colpevole è un incalcolabile danno a vite umane”.
Docile nel vederlo sul sagrato del suo paese con persone semplici ma forte con i prepotenti, un sacerdote diverso dagli altri.
Una sola volta lo vidi non fermarsi molto, accompagnato da uomini della polizia in borghese, addetti alla sua sicurezza. Ho il rammarico di non aver fatto in tempo a chiedergli già allora quale sia stato ciò che l'ha spinto a queste scelte. Quale sarebbe stata la risposta che avrebbe dato a quel giovane che ero?
So di un pensiero che stranamente gli compariva alla mente ogni volta: la figura di Mosé che si presentava davanti al faraone chiedendo la liberazione degli ebrei in schiavitù. Come il profeta, anche lui sentiva dentro di sé la forza di Dio.


Iniziò così il suo cammino, quando, a distanza di sette anni dal terremoto nella valle del Belice, nessuna casa era stata ricostruita e il suo popolo viveva nelle fredde baracche.
Era perfettamente convinto che il Signore fosse in mezzo a lui e alla sua gente e non accondiscendente a questo scempio degli uomini. Doveva intraprendere la Sua presenza, “avere le Sue parole”, “ripetere i Suoi gesti”. Sapeva che ogni atto sarebbe stato qualificato come “gesto politico”, “prete rosso”, “prete di sinistra”, “fuorilegge”. Sapeva che rischiava anche la contestazione all’interno della Chiesa.
Ma tutto questo non lo preoccupava. Era preoccupato solo di “intraprendere la presenza di salvezza del Signore”. E così iniziò quella lunga storia che lui definì “di liberazione”.
Iniziò da lì a scrivere lettere a tutte le istituzioni, non bussando le porte come mendicante ma come responsabile della loro drammatica situazione. Arrivò così ad affermare che il Belice o situazioni come il Belice sono “scelte di Cristo per la credibilità della sua Parola”.
Questa è forse la risposta a quel giovane che, timidamente, da lontano lo stava ad osservare.
Oggi che ci ha lasciato ci piacerebbe ricordarlo quando lui diceva nei momenti più difficili: "l’importante è essere sulla buona strada; anche se stanotte il Signore mi chiama, io sono pronto. Non so se tale missione sono riuscito a svolgerla bene, Dio solo può essere giudice".

Angelo Terruzzi

15.12.2017, Triuggio